Affrontare Bach per un interprete è ormai divenuta un’operazione più che mai complessa, che implica tutta una serie di scelte non facili, soprattutto dopo che si è fatto sempre più vincolante l’approccio filologico, che, in poche parole, avrebbe l’obiettivo di restituire una determinata composizione bachiana o, più in generale, barocca alla sua veste originale, alla prassi esecutiva originale, magari utilizzando, per massimo di rigore, strumenti originali. Non ci sogniamo nemmeno di addentrarci in un argomento così spinoso come quello relativo all’interpretazione della musica barocca, ci limitiamo a notare – insieme a tanti studiosi ben più autorevoli di chi scrive – che, proprio in riferimento al periodo citato, parlare di fedeltà al testo o alla prassi esecutiva “originale” è quantomeno problematico, se non velleitario, data l’estrema vaghezza che rivelano le partiture di allora quanto a strumentazione, indicazioni concernenti l’espressione o altri parametri musicali, che possano essere utili all’interprete. L’approccio filologico, dunque, non potrà mai dare risposte certe, non potrà mai essere l’unico criterio interpretativo, semmai rappresenta una metodologia da tenere in debita considerazione per avvicinarsi, per quel che è possibile, ad interpretazioni complessivamente credibili sotto il duplice profilo della contestualizzazione storica e delle esigenze estetiche tout-court. Ed è questo il punto: un’esecuzione sarà, in tal senso, credibile innanzitutto se l’esecutore o gli esecutori non mortificheranno mai la loro sensibilità, la loro intuizione musicale; solo in questo caso anche un ragionevole rigore filologico potrà trovare una sua giustificazione, una sua funzione estetica.
L’impostazione di Stefano Montanari, uno specialista nel campo della musica barocca – in qualità di docente, direttore e virtuoso di violino – è apparsa tutto sommato equilibrata. Il suo gesto direttoriale, che denotava assoluto dominio della monumentale partitura e grande autorevolezza nella condotta delle parti, ha saputo ottenere dall’orchestra del Teatro La Fenice, pur nei limiti concessi da una strumentazione in larga parte “moderna”, un suono ed una prassi esecutiva presumibilmente conformi a quello che poteva essere l’uso del tempo di Bach; il che si coglieva soprattutto nell’assenza di vibrato nella “voce” degli archi e in una generale sobrietà esecutiva, che opportunamente esorcizzava ogni tentazione romanticheggiante. Nondimeno, la resa interpretativa di certe pagine è risultata, a nostro avviso, eccessivamente saltellante e sillabata, penalizzata da una secchezza del suono, che strideva con il pathos che pervade il testo liturgico al pari di una ritmica troppo serrata. È il caso del «Gloria in excelsis», dell’«Et ressurexit», del «Cum Sancto Spiritu», del «Sanctus». Personalmente ci convince di più un Bach meno concitato e secco, in cui l’attenzione alla precisione formale, alla pulizia e alla chiarezza del suono – che peraltro abbiamo notato anche nell’interpretazione di Montanari – sappia coniugarsi ad una particolare cura del legato, per non disperdere la coesione strutturale e semantica del contenuto verbale e musicale. Pensiamo, ad esempio, alle edizioni rispettivamente di Herbert von Karajan e di Karl Richter, realizzate in tempi in cui la filologia era ancora di là da venire, eppure, per quel che ci riguarda, ancora valide.
Comunque, a parte le considerazioni di cui sopra, i meriti di questa esecuzione non sono pochi. Nel «Kyrie» si è potuto constatare grande affiatamento in orchestra, e tra l’orchestra e il coro, ben istruito da Claudio Marino Moretti. Il gioco contrappuntistico, lo stacco deciso dei tempi rendevano la prima invocazione, «Kyrie eleison» – solenne espressione della potenza del Signore – con una sonorità nitida e corposa, in cui spiccavano la precisione e il bel suono dei legni e del basso continuo. Nel duetto corrispondente al «Christe eleison» le due voci femminili (Sara Mingardo e Miah Persson) hanno saputo reggere il ritmo sostenuto in perfetta sintonia e tramite un fraseggio ben scandito, mai enfatico. Nel secondo «Kyrie eleison » – immerso in un clima di meditazione sul mistero della Trinità – il tono ieratico si è avvertito in tutto il suo misticismo.
Anche nel successivo «Gloria» il maestro Montanari è riuscito a sottolineare con nitidezza e giusto peso sonoro i diversi caratteri dei vari numeri in cui si articola. In particolare gli interventi corali – vera e propria struttura portante di questo monumento sonoro – hanno confermato un insieme coeso, preciso anche nei passaggi d’agilità, nelle manifestazioni trionfanti come nelle più sommesse perorazioni. Quanto ai “soli”, il contralto Sara Mingardonel «Laudamus Te» si è fatta sentire sempre intonata e in voce, seppur con qualche esilità timbrica, ad esprimere, con misurata passione, il mistico fervore che pervade quest’aria impervia. Nel duetto «Domine Deus» il soprano Miah Persson ha cantato con autorevolezza e purezza espressiva, grazie ad una voce ferma, dal timbro puro, e a buona agilità nelle colorature. Chiaro ed agile le ha corrisposto Mark Padmore, il classico tenore bachiano, seppure il timbro non sia esaltante per morbidezza. Il basso Michele Pertusi nel «Quoniam Tu solus sanctus» si è rivelato abbastanza preciso nelle colorature, ma la sua voce si assottigliava nell’affrontare le note estreme sia acute che gravi. Cosa che si è confermata anche nell’aria «Et in Spiritum sanctum» della sezione successiva («Gloria»), all’interno della quale segnaliamo l’«Et incarnatus est», un pezzo dal sapore vivaldiano, in cui il coro ha saputo rendere l’atmosfera sospesa nella contemplazione del mistero dell’incarnazione, e il monteverdiano «Crocifixus», dove ancora il coro era assolutamente rigoroso nella successione contrappuntistica delle varie voci. L’esecuzione è proseguita fino alla fine con i caratteri che abbiamo fin qui sintetizzato. Ma, prima di chiudere, meritano almeno una menzione alcuni interventi solistici dell’orchestra: innanzitutto le trombe, che svettavano sempre nitide ed argentine su una massa sonora davvero imponente; poi il corno da caccia e il fagotto in «Quoniam Tu solus sanctus»; infine gli oboi d’amore in «Cum Sancto Spiritu» come in «Et in Spiritum sanctum». Ma tutte le parti obbligate, nonché il basso continuo, hanno suonato in modo eccellente. Caloroso successo con entusiastici applausi con piedi che battono sul parquet.
Soprano Miah Persson
Contralto Sara Mingardo
Tenore Mark Padmore
Basso Michele Pertusi
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Stefano Montanari
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Continuo: Ulisse Trabacchin organo, Carlo Rebeschini clavicembalo, Alessandro Zanardivioloncello,
Matteo Liuzzi contrabbasso, Roberto Giaccaglia fagotto
Parti obbligate: Angelo Moretti flauto, Marco Gironi, Angela Cavallo oboi d’amore,
Roberto Giaccaglia, Fabio Grandesso fagotti, Andrea Corsini corno da caccia,
Roberto Baraldi, Gianaldo Tatone violini